Psicofarmaci ai bambini: negli USA il dibattito si fa incandescente

 

 

 

 

Si chiama ADHD, Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder, sigla della sindrome da deficit di attenzione e iperattività, un disturbo caratterizzato da irrequietezza e difficoltà di concentrazione che negli stati uniti sta acquisendo in questi ultimi anni dimensioni tali da destare particolare preoccupazione da parte delle autorità sanitarie.
Nei bambini tale patologia rischia di compromettere il normale sviluppo neuro-psicologico impedendone in futuro una corretta integrazione sociale. Si tratta di una delle varie patologie psichiche scoperte intorno agli anni ’50 che, trovando fondamento esclusivamente su fattori di carattere comportamentale piuttosto che su evidenze neurofisiologiche, ha sin dall’inizio destato un particolare scetticismo da parte di una certa corrente di pensiero della neuropsichiatria infantile, soprattutto per il fatto che non sia inquadrabile nell’ambito di una chiara e precisa sintomatologia.
Come riportato qualche giorno fa dal Wall Street Journal, un numero sempre crescente di psichiatri e psicologi dell’età evolutiva ritiene che siano troppe le diagnosi di ADHD attualmente effettuate con eccessiva facilità, e sempre maggiori i casi in cui tale patologia viene attribuita a bambini del tutto normali seppur alquanto irrequieti ed  indisciplinati.
I reale problema consiste nel fatto che nella maggioranza dei casi la contromisura più ovvia per tale disturbo sia la terapia psicofarmacologica senza neppure tentare strategie alternative quali ad esempio un supporto psicologico per bambini e famiglie o una psicoterapia comportamentale.
Il quotidiano statunitense mette a confronto le opinioni antitetiche di due tra i maggiori esperti in materia a livello nazionale ed internazionale: il Dr Sanford Newmark, coordinatore del programma di neuro-sviluppo pediatrico integrativo presso l’università della California, ed il Dr Harold S. Koplewicz, presidente del Child Mind Institute di New York.
Il primo sostiene che la patologia in questione venga attualmente diagnosticata in maniera alquanto sbrigativa e superficiale (too quick a fix) spesso elaborata dopo un colloquio di durata non superiore ai venti minuti, e, come se non bastasse, anche nei casi in cui la diagnosi risultasse appropriata, si tenderebbe ad un abuso di psicofarmaci (tra cui le anfetamine!! n.d.r.) di cui, soprattutto se somministrati in età pre-scolare, non si conoscono gli effetti nel lungo periodo. Il secondo è di tutt’altra opinione e basa la propria analisi sull’evidenza secondo cui l’ADHD non correttamente trattato durante l’infanzia costituirebbe nella maggioranza dei casi il “primum movens” di comportamenti antisociali e spesso criminosi durante l’età matura.
Il dibattito riguarda un argomento da annoverare senz’altro tra i più delicati del nostro tempo ed impone interrogativi inquietanti e di scottante attualità. Se da un lato la farmacologia moderna è riuscita ad allungare la vita e migliorare il benessere di milioni di persone , dall’altro è innegabile che al giorno d’oggi la tendenza a “medicalizzare” ogni minimo disturbo fisico e psicologico individuando in qualche “pozione magica” un facile e rapido rimedio, stia conducendo il genere umano verso una pericolosa alienazione da un concetto che ha caratterizzato la vita dell’uomo sin dalla sua comparsa sul nostro pianeta: la sofferenza, una parola scomoda da cui affrancarsi con ogni mezzo.
Varie sono le testimonianze di genitori totalmente soddisfatti dagli esiti della terapia farmacologica sui loro figli, così come quelle di persone che hanno preferito sospenderla dopo qualche giorno, preferendo nettamente un figlio irrequieto ed indisciplinato ad un zombie di pochi anni di età. 

Giusto o sbagliato che sia somministrare sostanze psicoattive durante l’infanzia, questa non è una tematica da affrontare con pressappochismo magari basandosi solo su teorie pseudo complottistiche quali l’interesse dell’industria farmaceutica nel vendere medicinali per ogni patologia vera o presunta che sia (con ciò non si intende considerare Big Pharma una filantropica priva di interesse economico); nè tantomeno sarebbe etico definire esclusivamente demagogico ed irresponsabile l’atteggiamento di chi antepone il principio di precauzione ad un rimedio facile ma dalle conseguenze non del tutto note.

Cosa certa è che le autorità sanitarie di tutto il mondo dovrebbero seriamente interrogarsi sulle varie sfaccettature di un problema che rischia seriamente di compromettere la qualità della vita di intere generazioni.

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