Cibi biologici: studio made in USA suscita polemiche in Gran Bretagna

I sudditi di sua maestà la regina Elisabetta sono tra i maggiori consumatori al mondo di cibo biologico, tendenza che continua a crescere anche se, come evidenziato da recenti ricerche, non presenterebbe benefici per la salute superiori a quelli attribuibili agli alimenti prodotti secondo metodiche tradizionali.

Un gruppo di ricerca afferente all’università californiana di Stanford ha effettuato uno studio bibliografico (Systematic Review) pubblicato ieri sulla rivista scientifica “Annals of Internal Medicine”. Allo scopo di raccogliere una vasta mole di dati sono state passate al setaccio varie ricerche effettuate in precedenza riguardanti sia lo stato di salute dei consumatori di cibi biologici e non, sia eventuali differenze tra i livelli nutrizionali delle due tipologie di alimenti.

I risultati evidenziano livelli simili di sostanze nutritive  ed i soggetti coinvolti non presentavano differenze significative nel loro stato di salute attribuibili ad una diversa alimentazione.

Lo studio in questione tuttavia presenterebbe notevoli elementi di inconsistenza, almeno stando a quanto commentato alla BBC da un portavoce della Soil Association, organismo britannico la cui funzione è quella di rilasciare ai produttori, dopo accurate verifiche, la certificazione di produzione di tipo biologico.

In primis viene contestato agli scienziati il fatto che gli studi sulle persone non erano stati di durata superiore ai due anni, arco di tempo estremamente ristretto e totalmente inadeguato alla formulazione di ipotesi valide nel lungo periodo.

Inoltre, ammesso e non concesso che la quantità di sostanze nutritive presenti in un alimento di produzione biologica si equivalga a quella della sue controparte prodotta con metodiche convenzionali, non si può ignorare la presenza dei pesticidi (i cui rischi per la salute sono noti da tempo) che nei cibi non biologici, come riconosciuto dagli stessi autori dello studio, era nettamente superiore.

Come se non bastasse, l’utilizzo massiccio di pesticidi favorisce la proliferazione nell’ambiente di batteri multi-resistenti ai trattamenti farmacologici, pertanto proseguendo con questo trend non solo si dovrà ricorrere in futuro a trattamenti chimici sempre più potenti, ma si rischia di creare ceppi batterici che, entrando in contatto con le persone, non saranno più eliminabili tramite gli antibiotici attualmente a disposizione.

Sempre negli USA, come riferito un paio di giorni fa dal New York Times, comincia a farsi incandescente il dibattito relativo al massiccio utilizzo di antibiotici in zoo-tecnia e la recente comparsa di ceppi di Salmonella resistente ad oltre cinque classi di antibiotici fino a poco tempo fa efficaci nei confronti di tale germe.

A questo punto, pur mantenendo sempre la massima considerazione per il lavoro dei ricercatori statunitensi, sorge spontaneo domandarsi “cui prodest” una presunzione di innocenza nei confronti di metodologie di produzione che ormai da tempo sono in evidente conflitto con un’ottica globale di eco sostenibilità.


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