La violenza nel rapporto di coppia. “L’altra faccia della luna”

Gentile Dott.ssa, le scrivo perché vivo costantemente in un forte stato d’ansia e non so a chi rivolgermi per un consiglio obiettivo. Sono sposata da meno di un anno dopo un breve fidanzamento. All’inizio ero veramente molto felice anche se fin da subito mio marito si è mostrato particolarmente geloso nei miei confronti. Questo inizialmente mi lusingava perché lo attribuivo all’amore e al suo interesse nei miei riguardi, ma poi a lungo andare questo suo comportamento ha cominciato ad infastidirmi fino a provocare liti sempre più frequenti. Sembra che debba giustificare ogni mio spostamento, devo chiedere permesso anche solo una visita alla mia famiglia. La settimana scorsa al culmine di una lite per un mio breve ritardo mi ha dato due schiaffoni in volto per poi chiedermi immediatamente scusa e giurandomi che non farà mai più un simile atto. Ho paura  però che possa di nuovo alzare le mani e non riesco più a comportarmi normalmente con lui. Cosa devo fare? Antonia F.

In quasi tutte le società tradizionali le donne rispetto agli uomini hanno sempre vissuto situazioni di subordinazione e discriminazione; l’istruzione fino a non troppo tempo fa era limitata all’apprendimento di abilità domestiche, non avevano accesso a nessuna posizione di potere ed il matrimonio è stato quasi sempre considerato un mezzo necessario per garantire alla donna sostegno e protezione. In caso di maltrattamenti o di mancato mantenimento una donna sposata aveva scarse possibilità di rivalersi. I dati di molte ricerche non sono certo incoraggianti, indicano infatti una elevata incidenza della violenza contro le donne in pressoché tutti i Paesi del mondo. In particolare, la violenza domestica è la forma più comune di abuso commesso contro le donne (UNICEF, 2006). La violenza domestica è la principale causa di lesioni fisiche per le donne tra i 15 e i 44 anni di età, più degli incidenti d’auto e le rapine messi insieme; il maltrattamento durante la gravidanza è la principale causa di anomalie prenatali e mortalità infantile. Culturalmente nella famiglia tradizionale la violenza sulla donna era “normale”, c’era il padre padrone, con il passare del tempo si è avuta una progressiva democratizzazione dei rapporti umani, in primis nella famiglia. Anche a livello legislativo gran parte dei cambiamenti sui reati relativi alla violenza sessuale sono relativamente recenti: il passaggio dai reati contro la morale e il buon costume ai reati contro la persona (gesto punito come offesa ai danni della persona e non della morale pubblica) risale solamente al 1996. La rappresentazione sociale della visione della famiglia, per cui uomo e donna hanno stessi diritti e stessi doveri, sta cambiando lentamente, di conseguenza sono state sancite anche nuove leggi e nuove forme violenza quali: violenza psicologica, economica, stalking. Purtroppo quando il reato è intra-familiare raramente viene denunciato. Di solito le donne che denunciano, lo fanno maggiormente quando sono coinvolti anche i figli, non prima.

Il percorso della violenza attraverso alcune fasi emblematiche:
1. Inizialmente l’uomo violento è vissuto dalla donna come molto attento a lei, alle sue esigenze; in realtà ciò che la donna scambia per cura ed attenzione è spesso il prologo del controllo, presto le attenzioni si trasformano in limiti: fare tutto insieme diventa “non puoi fare niente senza di me”; la protezione, rafforzata dal paradigma sociale del bisogno di protezione della donna diventa “ controllo ogni tuo movimento, chiunque frequenti, qualsiasi cosa fai”. La tolleranza della donna nei confronti di questa situazione dipende molto dal suo livello di autostima. Il controllo tende a divenire sempre più stretto, causando una situazione d’isolamento della donna dalla famiglia d’origine, dalla rete amicale e da qualsiasi altra rete di supporto. L’isolamento comporta una sottrazione per la donna oltre che di un reale sostegno anche di altri punti di riferimento alternativi a quella del partner violento, per cui la donna mette in discussione anche la sua capacità di leggere correttamente la realtà. Alla fine si instaura una completa dominanza.
2. Dal momento in cui la donna manifesta disagio per la situazione allora scatta la violenza (psicologica, verbale, fisica), poiché qualsiasi rimostranza viene vissuta come un tentativo di sottrarsi al controllo. La violenza psicologica che in genere si manifesta per prima e si mantiene poi per tutto il percorso della violenza trova il suo leit motiv nel sottolineare la carenza, la debolezza, l’incapacità, la responsabilità. Specularmente infatti la donna sviluppa un’idea di sé come debole, incapace, responsabile della violenza.
La tendenza è di minimizzare la violenza o comunque a cercare delle giustificazioni per il violento. In questa fase c’è un quasi totale disconoscimento della violenza, meccanismo che si incastra perfettamente con il disconoscimento sociale e dell’uomo violento, creando un circuito che si autorinforza nel mistificare la realtà.
3. Dopo l’episodio violento in genere c’è una fase di riconciliazione, che si basa sul “pentimento” dell’uomo violento, pentito per la violenza ma più che mai fermo nella sua convinzione che la responsabile di questa perdita di controllo è comunque la donna.
Le riconciliazioni contribuiscono a confondere e mistificare ancora di più la realtà.
L’atteggiamento di pentimento rinforza l’idea della donna sulla parte positiva dell’uomo violento, mantenendo la scissione tra la parte buona e quella violenta del partner; questa ambivalenza ritarda la presa di coscienza della sua situazione di vittima in quanto impedisce di vedere l’altro come carnefice.

Come riconoscere l’uomo violento?
Nessuna relazione violenta inizia come tale. La violenza subentra in un secondo momento.
Nonostante la relazione violenta sia determinata da una “dinamica di coppia”, Carver (2003) ha individuato alcuni “segnali di allarme” dei comportamenti dell’uomo che possono predire con buona probabilità il manifestarsi di comportamenti violenti nella relazione, una volta che essa si sia stabilizzata

  • attaccamento rapido: persone che in un mese si sentono già superfidanzati
  • temperamento aggressivo: la facilità con cui queste persone si scaldano per ogni cosa
  • tentativo di eliminazione del sostegno sociale della partner: gli uomini che pian piano tagliano tutti i rapporti del partner
  • è sempre colpa della partner : quando si instaura quella dinamica per cui le colpe sono sempre unidirezionali
  • controllo : caratteristico di quelle persone che perdono spesso controllo
  • il “test della cameriera”: come un uomo si comporta con una cameriera, è un buon indice di come si comporterà con la sua partner dopo sei mesi; generalizzando come si comporta con gli altri estranei, è un buon indicatore di come si comporterà dopo sei mesi con la partner

Quando vi è violenza fisica, c’è sempre anche violenza psicologica?
La violenza fisica implica sempre anche una violenza psicologica. Il legame tra condizioni di salute e violenza è molto forte: la violenza fisica, sessuale o psicologica è spesso accompagnata da disturbi della sfera psicologica e/o emozionale come ansia e depressione. Queste violenze hanno degli effetti devastanti sulla vittima, che oltre ad essere “tradita” nella relazione stessa, sperimenta sensi di colpa legati all’eventualità di “averlo meritato”, alla percezione di avere la responsabilità della buona riuscita della relazione, alla sensazione che per essere una “brava moglie” (o altro genere di ruolo femminile) è necessario sopportare la situazione di buon grado, perché “è sempre stato così”, oppure perché “cosa penserà la gente”, o ancora “per il bene dei bambini”.
Generalmente chi subisce violenza all’interno di una relazione ricerca la colpa della violenza in se stesso, e si chiede cosa può fare per rimediare. L’uomo violento, non è mai sempre violento, c’è sempre un aspetto di non violenza, subdolo e inconsapevole, che crea un dilemma, un conflitto nella donna. Questo dilemma si accentua anche a seguito del comportamento dell’aggressore che per la paura di perdere la partner entra in una fase di calma, in cui apparentemente si ravvede, perché sente il bisogno di ristabilire la relazione perversa che ha instaurato. Nella maggior parte dei casi si scusa solo per aver “ecceduto” nella rabbia, che era comunque (a suo dire) legittima e giustificabile, e non si prende la responsabilità dell’accaduto.

Quando è necessario far intervenire lo psicologo?
Nel tentativo di affrontare la situazione la donna paradossalmente aumenta lo sforzo per essere adeguata (buona madre, buona moglie, ecc.) nel tentativo/illusione di poter in qualche modo controllare il comportamento dell’altro evitando la violenza; si è assunta l’onere di proteggere i figli dagli attacchi diretti o indiretti dell’uomo violento; si è assunta in esclusiva l’onere di affrontare e gestire la situazione di violenza aumentando l’isolamento dal mondo esterno. Il paradosso sta nel fatto che mentre la donna compie questo sovraccarico di lavoro fisico e psicologico, rafforza in sé l’idea di essere debole e incapace, complici sia l’uomo violento che ancora una volta la cultura della femminilità condivisa socialmente. La donna molto spesso per mancanza di risorse finanziarie o perché avendo cercato aiuto e non essendo riuscita ad ottenerlo, non riesce ad uscire dalla situazione, vive con un costante senso di ansia, di blocco, si convince di dover rimanere lì dov’è per la sensazione di potercela fare da sola. E’ proprio in questa fase che la donna deve imparare a chiedere l’aiuto di un esperto o di chi a suo parere potrebbe aiutarla ad uscire dalla situazione.

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